Pubblicato su politicadomani Num 86 - Dicembre 2008

Foto dell’Italia nel 2050
Saranno gli immigrati di oggi a fare la ricchezza di domani

È in corso un rivolgimento epocale dovuto alla massiccia presenza di immigrati. Le dinamiche demografiche in atto, che vedono una maggioranza di stranieri al Centro-Nord, privilegiano queste regioni a danno del Mezzogiorno

di Maria Mezzina

Sono il 6,7% gli immigrati in Italia, quasi un punto percentuale sopra della media UE, con un aumento di 300-350mila unità all’anno. Al terzo posto dopo la Germania e la Spagna, per intensità di ingressi, e, proporzionalmente, superiori perfino agli Stati Uniti, siamo diventati un grande paese di immigrazione.
Il dato di fatto presenta aspetti negativi ed aspetti positivi. C’è la naturale e istintiva paura che provoca il contatto con il nuovo, lo straniero, il diverso; paura abilmente sfruttata da media e centri di potere. Ma c’è anche l’impulso dato allo sviluppo, in economia e nella cultura. Perché lo scambio fra civiltà diverse ha sempre portato ad un arricchimento, ad una sorta di ibridazione che ha dato origine a fenomeni culturali di eccellenza di cui la nostra storia è eccezionalmente ricca. E perché è ampiamente dimostrato che gli immigrati contribuiscono, e non poco, a produrre ricchezza con il lavoro, con i contributi che pagano e con il tasso di fertilità delle loro donne. 
L’impatto finanziario dei contributi versati dagli immigrati, nel solo 2007, supera i 3 miliardi e 749 milioni di euro - pari a una piccola manovra finanziaria - di cui quasi 3.113,5 milioni di euro solo di IRPEF (Tabella B). Indice della vitalità lavorativa e imprenditoriale degli immigrati, che è confermata da numerosi altri indicatori quali la percentuale di lavoratori, il numero di iscritti al sindacato, il numero di imprese di cui sono titolari. Due terzi dei nuovi occupati sono stranieri; gli immigrati sono il 6,4% della forza lavoro italiana (nel NE sono l’8,1%); su poco più di 12 milioni di iscritti al sindacato oltre 800 mila sono immigrati, sono il 4,8% nella Cgil, il 6,5% nella Cisl, l’8,1% nella Uil, il 3,3% nell’Ugl.
Con le rimesse contribuiscono a sostenere le condizioni sociali e l’economia dei loro paesi di origine: la Banca Mondiale ha calcolato che, nel 2007, le rimesse dall’Italia sono state di oltre 6 miliardi e 44 milioni di euro, con un aumento dell’11% rispetto al 2006 e un aumento del 99% dal 2002 al 2007. A inviare denaro sono soprattutto gli immigrati non stanziali, quelli di breve periodo, i più giovani e gli irregolari, arrivati in Italia lasciandosi indietro moglie, figli e famiglie dei genitori.  
Una presenza preziosa oggi, ma soprattutto in prospettiva.
Il nostro sistema previdenziale, fatto di pensioni e assegni sociali che a stento garantiscono un minimo di dignità per gli anziani, grava sulle spalle di chi lavora, e cioè dei più giovani. I dati Istat da anni però indicano una crescita demografica negativa: con la speranza di vita che aumenta e il numero dei cittadini italiani che diminuisce, il peso del sistema diventa sempre meno sostenibile, con conseguenze sociali gravissime. Gli anziani stentano a tirare avanti, i giovani non hanno certezza sul lavoro né alcuna garanzia di arrivare un giorno a percepire una pensione o un assegno appena decenti per la vecchiaia. In questo scenario l’immigrazione diventa una risorsa e una speranza al punto che là dove questo fenomeno è ridotto al minimo (Sud e Isole) esiste il rischio di involuzione del sistema economico, produttivo e perfino sociale e culturale.
Da un’elaborazione di Caritas/Migrantes fatta su dati Istat (Tabella C) risulta che a fronte di una diminuzione della popolazione italiana, che dal 2006 al 2050 passerebbe da 56,2 a 50,9 milioni (ma nella ipotesi peggiore gli italiani potrebbero scendere addirittura a 46,7 milioni), c’è invece un aumento della popolazione straniera, che da quasi tre milioni (2.939.000 i residenti stranieri al 31 dicembre 2006) passerebbe, nello stesso periodo, a 12,4 milioni (ovvero, secondo l’ipotesi meno spinta, a 9 milioni). Si tratta di persone in maggioranza in età lavorativa, molti dei quali hanno una istruzione superiore: sono infatti ben 47.507 gli studenti universitari stranieri dell’anno accademico 2006-07, più che raddoppiati rispetto al 1998-99. Un dato più che positivo a cui si aggiunge il fatto che il numero di giovani stranieri è destinato ad aumentare: nel 2007, infatti, oltre un bambino su dieci (11%) nato in Italia è figlio di genitori stranieri. La percentuale aumenta nel Nord al 17% e nel Centro al 13%, mentre nel Sud e nelle Isole scende al 3%.
Queste differenze contribuirebbero, negli anni, ad aumentare il divario socio-economico fra il Centro-Nord e il Sud. Perché, in prospettiva - dicono Antonio Golini e Marco Marsili (Dossier Statistico Immigrazione, “Le nuove previsioni demografiche dell’Istat”, pg. 116-123), commentando le previsioni demografiche dell’Istat -, le regioni del Nord (dove ora si trova la maggioranza della popolazione più anziana, mentre è al Sud che l’età media è più bassa), vedrebbero un aumento della popolazione totale del 10-20%. Viceversa al Sud, anche per effetto delle migrazioni dei giovani meridionali verso il Nord, ci sarebbe una diminuzione di popolazione pari al 12-14%. Continuando inoltre ad aumentare la speranza di vita, e diminuendo il tasso di fecondità delle donne straniere, ora più alto di quello delle italiane, che si adeguerebbe a quello italiano, l’età media della popolazione è destinata a crescere al Sud e a diminuire al Centro-Nord. Di conseguenza, il numero di lavoratori si ridurrebbe di 1,1 milioni di persone al Centro-Nord, mentre nel Mezzogiorno scenderebbe di ben 4,5 milioni. Con il risultato di uno svuotamento e un invecchiamento di popolazione tale da generare un decadimento economico e sociale vicino alla catastrofe.
Perché, spiegano Golini e Marsili, “il prodotto interno lordo (cioè la ricchezza prodotta) di un determinato territorio non è soltanto il frutto del sistema economico e della sua struttura e organizzazione, ma anche della quantità di persone che sono sul mercato del lavoro - il capitale umano dal punto di vista quantitativo e qualitativo - e più in generale degli abitanti che su quel territorio consumano i beni e i servizi”.
Si tratta di uno scenario di cui occorrerebbe tenere conto nella ipotesi di una trasformazione della organizzazione dello Stato italiano in senso federale.

 

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